‘Anche Bach mi ha salvato’

ANTONELLO VIOLA

OPENING GIOVEDì 22 OTTOBRE 2020
FINO Al 30 GENNAIO 2021

 
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Anche Bach mi ha salvato

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Una volta, quando ancora lo conoscevo poco, Antonello Viola mi ha parlato a lungo, con entusiasmo e sconfinata ammirazione, di Luigi Bartolini, probabilmente il più grande incisore del Novecento italiano assieme a Morandi. Abbiamo discusso di due acqueforti tra le sue più note – Il martin pescatore e Lo scarabeo Ercole – che avevo incluso in una mostra che Antonello aveva visitato qualche giorno prima di quella conversazione. Come me, anche lui era attratto dalla sua capacità di usare la lastra come un foglio da disegno, di punteggiarla di immagini potenziali, di segni più assertivi accanto a scarabocchi, di movimenti della mano apparentemente incontrollati e accenni a figure che paiono generarsi da questi movimenti.

Non ho resistito alla tentazione di raccontare questo episodio, non solo per il piacere di rievocarlo, ma anche perché credo riveli qualcosa di importante su Antonello Viola: che è un artista con una predilezione per l’incisione, un pittore formatosi in quel territorio, il cui approdo alla pittura è avvenuto, se così si può dire, da un accesso laterale. Ed è proprio questa lateralità, probabilmente, che gli ha permesso di guardare dalla giusta distanza critica la scena della pittura che ha accompagnato i suoi esordi, tra gli anni Ottanta e Novanta: la figurazione muscolare e citazionista degli artisti della Transavanguardia e il lavoro di chi, suo coetaneo, cercava in Richter (o in un “richterismo” di maniera) e in una forma di “realismo mediale” nuove vie per la figurazione. Più che con gli anni Ottanta e Novanta, semmai, il lavoro di Antonello Viola sembra stabilire un legame con gli anni Settanta, con quel dedalo di esperienze italiane e internazionali (Pittura Analitica e Pittura-pittura, Support/Surface, Radical Painting, ecc.) che rinviavano a modi comuni di sentire la pittura – fondamentale, essenziale, riflessiva, opaca, silenziosa – e che operavano una riduzione del linguaggio a un grado zero, basato sui suoi elementi primari: formato, supporto, colore.

Certo, questa genealogia del suo lavoro è parziale e discutibile – so che lui storcerebbe il naso; inoltre da qualche tempo continuo a sottolineare l’aspetto lirico di certi suoi dipinti, qualcosa di “licinesco” per la volatilità e instabilità di forme o colori che finiscono per arrampicarsi lungo i bordi sostenendosi e trasformandosi a vicenda, per prossemica o contatto –, tuttavia il colore, il supporto e il formato mi sembrano le tre coordinate attraverso cui guardare il lavoro di Viola.

 

L’esperienza dell’incisione, inoltre, l’idea cioè di una processualità lenta e scandita da fasi essenziali e definite, mi sembra alla base della pratica che Antonello Viola ha messo a punto negli anni: la carta (e non la tela o la tavola) come supporto elettivo (una carta giapponese di due formati diversi, sempre gli stessi); il foglio come inizio, con una squadratura a matita che perimetra lo spazio per il colore e costituisce l’unico flebile progetto dell’immagine;  una serie di stati successivi, di velature e campiture di pittura a olio che inspessiscono la carta fino a farla dissolvere nel colore – un colore che, più che imbellettare la superficie, penetra nel supporto fino a dar vita a una “carta colore” con una marcata presenza oggettuale.

(Piccola nota a margine: mentre Antonello, durante la visita in studio che ha preceduto questa mostra, mi permette di maneggiare i lavori non ancora incorniciati, mi rendo conto che questi fogli di “carta colore” hanno un corpo, un volume, un peso, perfino un suono. In galleria, invece, la loro presenza emerge nella verticalità, con quello spazio di un paio di centimetri che li separa dallo sfondo all’interno della cornice).

Gli strati di colore, inoltre, si rilanciano reciprocamente e reagiscono l’uno all’altro all’insegna dell’imprevedibilità: alcuni sono più assertivi e materici, altri corrispondono a velature sottili, a scorticature e cancellature; alcuni sembrano avere un andamento irregolare e frammentario, altri uno più ampio, che eccede i limiti della squadratura a matita che corre lungo il perimetro, senza però combaciare con l’intera superficie.

Vi è poi un ultimo passaggio, un atto apparentemente conclusivo che è anche l’elemento emblematico dei lavori che Antonello Viola ha realizzato negli ultimi anni e anche per questa mostra: l’approdo a un ultimo strato di foglia d’oro, o di oro bianco o rame, che dona a ogni lavoro l’aspetto di un “quasi monocromo”. Uno strato che chiude, sigilla e custodisce (che mi fa pensare alla riza metallica che ricopre le icone) e al contempo costituisce un nuovo inizio: solo dopo averlo applicato, l’artista inizia un meticoloso processo di scavo (uno scavo lieve, che asseconda le accidentalità della superficie), un nuovo disegno dell’opera, che si realizza retroattivamente e per via di raschiature e delicate asportazioni, e che lascia emergere, in piccole aree e lungo i margini, gli strati sottostanti, la vita materiale del dipinto.

Il nuovo disegno dell’opera, inoltre, non è solo retroattivo: sulla foglia d’oro l’artista può aggiungere nuove porzioni di colore, gocciolature e accenni a nuove stratificazioni che rilanciano in superficie quelle sottostanti e confondono la temporalità dell’opera, complicando il rapporto tra un “prima” e un “dopo” della pittura a cui corrisponde un dentro e un fuori. Alcuni segni a matita, inoltre, poco più che ghirigori minimi ed esangui, a metà tra ipotesi di figure e nuove cancellature, solcano liberamente la superficie: se prima, all’inizio del processo e con la squadratura, la matita organizzava lo spazio per il colore, ora accarezza e scarabocchia la superficie con un andamento balbuziente (viste così le superfici di Viola sembrano avere a che fare con quelle di Luigi Bartolini: luoghi di combattimento con l’immagine, di un’immagine non definitiva, in movimento, che pare risolversi in un non finito perpetuo).

La personale di Antonello Viola da Francesca Antonini Arte Contemporanea, dal titolo Anche Bach mi ha salvato, è anche una mostra sul tempo, un tempo che dà le vertigini: sono passati cinque anni dall’ultima personale in galleria, ma a guardare le cronologie dei lavori, spaventosamente ampie, della durata di diversi anni, sembra che l’artista abbia ripreso il discorso da dove l’ha lasciato. A questo tempo largo non corrisponde solo lo svolgersi di una processualità lenta e non premeditata, ma anche la condizione di un lavoro che sembra reagire al trascorrere dei giorni e delle stagioni, e a una dimensione di solitudine e dolori privati (a cui il titolo della mostra fa riferimento), che può generare immagini e proiezioni che ogni opera sembra custodire/nascondere all’interno, tra gli strati che cancellano e le pieghe materiali della pittura.

Oltre alle carte (dieci, disposte sulle pareti con un andamento paratattico), c’è anche un altro lavoro in mostra (Ricordi Isola di Palmarola, 2015-2010): un grande dipinto su vetro – un altro dei supporti usati dall’artista da circa dieci anni a questa parte – composto da quattro lastre dipinte a olio su entrambi i lati, applicate su una mensola a parete e disposte una accanto all’altra con i bordi sovrapposti. Il vetro, dunque, accoglie le stratificazioni irregolari e permette al colore di fondersi con il supporto per manifestarsi come “colore materia” e “colore luce”, senza perdere la sua qualità riflettente: un aspetto, questo, che lo accomuna ai dipinti su carta. Anche la superficie dorata e consumata delle carte riflette infatti, pur debolmente, il volto dell’osservatore, facendone coincidere l’immagine, per qualche istante, con quella della figura solitaria dell’artista davanti al dipinto.

RASSEGNA STAMPA:

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