IPOSCENIO
GUGLIELMO CASTELLI

OPENING MARTEDì 21 MAGGIO
FINO Al 19 LUGLIO 2019

 
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IPOSCENIO

DAVIDE FERRI

C’è un’immagine, forse autobiografica, a cui Guglielmo Castelli ha fatto riferimento durante la nostra conversazione nel suo studio torinese, non più di un mese fa: quella di un bambino che, affinché impari una postura corretta a tavola, viene costretto dai suoi genitori a mangiare con due libri sotto le braccia. 

Questa immagine - sordidamente violenta, ricorrente in certi racconti, decisamente d’altri tempi, sull’apprendimento delle regole del bon ton – mi ha fatto pensare a quel bambino in rapporto alle figure che l’artista dipinge e che avevo attorno nello studio: come cambia, in un individuo, la percezione del mondo esterno, mentre il suo corpo e la sua mente sono alle prese con un’energia, con una tensione che si propaga da un gesto innaturale (nel caso del bambino evocato da Guglielmo la presa per mantenere fermi due libri tra torace e braccia mentre taglia e porta il cibo alla bocca)? E come appare, dal di fuori, la condizione di un individuo il cui corpo è diviso tra un gesto introverso e le inevitabili sollecitazioni dell’esterno? E come si propaga l’energia di quel corpo nel mondo circostante?

Vi è anche un’altra immagine che ha segnato il mio incontro con Castelli nel suo studio, appartiene alla storia dell’arte e ha idealmente accompagnato – mi ha detto l’artista - la realizzazione di alcuni dei lavori esposti in questa mostra, la terza da Francesca Antonini: quella del Sogno di Costantino di Piero della Francesca, un noto frammento delle Storie della Vera Croce (che, guarda caso, avevo rivisto qualche giorno prima durante una breve vacanza ad Arezzo).

In quel dipinto lo spazio antistante un corpo sprofondato nel sonno - quello dell’imperatore collocato al centro dell’immagine, all’interno di un baldacchino dalla struttura rigidamente solida - accoglie una presenza - un angelo che porta a Costantino la rivelazione della croce - che proviene dall’interno di quel corpo, dalle visioni che lo stanno attraversando, relegando i personaggi in primo piano (tre guardie alle prese con un compito molto pratico, sorvegliare il corpo dell’imperatore dormiente) in una dimensione dove si sovrappongono sogno e realtà. 

Un corpo dormiente - o meglio, abbandonato - è anche quello raffigurato nel dipinto che introduce i visitatori alla mostra, l’omonimo Sogno di Costantino, dove una figura, la cui presenza è introdotta da una specie di sipario, o tendaggio semiaperto, se ne sta adagiata su uno spazio prospiciente un cielo notturno e luminoso. 

Quello di Sogno di Costantino è anche un “corpo-macchia” (o un corpo realizzato con una giustapposizione di macchie di toni diversi, quelle del piede in primo piano, del corpo e della testa), come altri ne appaiono nei lavori di Castelli. 

“Corpi-macchie” sono in fondo anche le forme riprodotte dalle due ceramiche che l’artista espone nella prima sala della galleria, dove una piccola sfera posta sulla sommità di una massa corporea apparentemente non definitiva, sembra bloccare in un punto di equilibrio il movimento di liquefazione, di discioglimento della figura (sottolineato anche dall’andamento delle linee e delle pennellate sulla superficie della ceramica, sulla pelle della scultura). Inoltre le due ceramiche sono in stretto dialogo, nella prima sala, con il grande intervento a parete dal titolo Spazio di competenza, dove alcune forme ritagliate sulla carta danno vita a una progressione di “corpi-macchie” sulla parete, fluttuante e movimentata come quella di un affresco barocco.

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 Le due immagini – il bambino con i libri sottobraccio e il Sogno di Costantino  hanno a che fare con una dimensione che mi sembra appartenere ai dipinti di Castelli (quasi tutti collocati, in questa mostra, nella seconda sala della galleria), quella di un corpo e dello spazio che lo circonda come emanazione di quel corpo, dunque un paesaggio interiore e psicologico, oppure – ribaltando i termini del discorso - del corpo stesso come emanazione del paesaggio. 

Attorno a questa dimensione si agglutinano molte suggestioni, che rimandano alla poetica dell’artista (quel particolare modo di Castelli di investire la figura e l’ambiente circostante della stessa intensità), alla sua storia e formazione – una disciplina del corpo praticata attraverso la pallavolo semi professionista, abbandonata alcuni anni fa; gli studi di scenografia e le riflessioni sullo spazio teatrale – e alla storia della pittura che ha finito per entrare nei suoi dipinti: il lavoro di Edouard Vuillard, ad esempio - l’equilibrio che si stabilisce, nelle sue immagini, tra interiorità dei soggetti e paesaggio esteriore e che certi tratti, certe pennellate di Castelli possono evocare in alcune zone dei dipinti; la pittura di Francis Bacon come la descrive Deleuze, uno scambio di forze tra una figura isolata al centro dell’immagine e lo sfondo che si arrotola attorno alla figura riducendone al minimo la possibilità di movimento.

Dunque: i dipinti di Guglielmo Castelli sono figurativi. Mostrano figure (che, con un buon grado di approssimazione potrei chiamarle attori, ballerini, acrobati) abbandonate e concentratissime in azioni imperscrutabili, che hanno a che fare con un desiderio del corpo di richiudersi nel suo involucro, sottraendosi allo sguardo dello spettatore, e al contempo di espandersi nello spazio circostante; figure sospese tra necessità interiori e l’invitabile impulso a relazionarsi con il mondo.

 Quando le ho viste per la prima volta, mentre l’artista era in residenza al Macro di Roma, nel 2015, le figure dipinte da Castelli si collocavano su uno sfondo monocromatico – come agglomerati (di gambe e braccia, di corpi senza organi e senza struttura ossea), in equilibrio precario, sottoposte a improvvisi rigonfiamenti e tensioni, o alle prese con pose liquide e disarticolate, movimenti goffi e acrobatici, sul punto di spezzarsi o di dissolversi nello sfondo. Esploravano la superficie sospinte da due forze contrapposte, come se il loro desiderio di espansione e di dilatazione nello sfondo fosse controbilanciato dalla presenza di alcuni elementi (piccoli puntelli, tondi, aste, cerchi o altri improbabili attrezzi ginnici) capaci di bloccarne/accompagnarne la forma, di assecondarne uno sviluppo in verticale, o di costituire un limite, un argine, al loro movimento di espansione e di estinzione.

Le figure dipinte da Castelli, da qualche tempo a questa parte, hanno iniziato a collocarsi in uno spazio che non saprei come nominare – genericamente un interno, ma un interno che non è esattamente una stanza; piuttosto un ambiente claustrofobico, un luogo stretto e disomogeneo) che tende a chiudersi, a stringersi attorno alla figura che lo abita (quasi sempre sola nell’immagine) accompagnando o ostacolando l’energia che si sprigiona dai suoi movimenti. Questo spazio l’artista lo chiama – come suggerisce il titolo di questa mostra - “iposcenio”, facendo riferimento al teatro, a quell’ambiente che sta sotto il palco, un raddoppiamento speculare e sotterraneo del palco, dove si combinano elementi eterogenei - frammenti di scenografie, richiami ad ambienti a venire (pronti a emergere sul palco) o già consumati dall’azione scenica -; un luogo di abbandoni solitari, dove il corpo della figura si pensa già in un fuori, in un altrove che è accaduto o sta per accadere.

 Questo rapporto disarticolato che si stabilisce tra la figura e un ambiente chiamato iposcenio, si traduce, sulla superficie, in un ritmo sincopato, di avanzamenti e arretramenti di alcune zone e parti dell’immagine, di sproporzioni, di rallentamenti e accelerazioni, di scambi energetici tra figura e sfondo, tra primo e secondo piano. Un ritmo di tratti e pennellate discontinuo che procede, magicamente in equilibrio, tra fluidità e molte fratture. 

 

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