EPARINA
GUGLIELMO CASTELLI

GIUGNO 2014

 
 
 

Cosa sta succedendo?

Claudio Libero Pisano

Ci sono diversi modi di fare la guerra, c’è quello convenzionale e quello invece che prevede uso di armi chimiche di distruzione di massa. Raramente c’è chi privilegia la via diplomatica.

Diversi sono anche i modi di dichiararla. Si può attivare un enorme sistema di comunicazione e tentare di vincerla prima ancora di aver sparato i colpi decisivi. Ci sono poi guerre silenziose che non fanno parlare di sé, ma si insinuano fino al midollo dei sistemi, fino a piegarli.

Guglielmo Castelli ha scelto una sua personale strada per dichiarare la sua guerra. Un conflitto silenzioso ma al contempo carico di rumore. Una dichiarazione di guerra allo spazio ristretto della pagina o del telaio e una sempre più evidente insofferenza nei confronti di definizioni nette.

Castelli è un artista che senza clamore sta spostando la sua pittura verso percorsi inconsueti.

La sua ricerca, negli ultimi due anni, si è focalizzata sulla capacità che ha la pittura di occupare perimetri definiti, anche fuori da vincoli prefissati, che riguardano non solo la costrizione fisica della superficie pittorica, ma tocca soprattutto corde che attengono a vincoli mentali, dove la pittura occupa man mano la percezione dello spazio, si appropria di aspetti tridimensionali. Le misure si sono evolute insieme alle forme delle sue tele. In un’opera di Castelli ci si deve entrare, grande o piccola che sia. Non conta per l’artista il supporto, conta piuttosto la capacità della sua pittura di investire lo spettatore con la potenza del racconto. La raffigurazione sta sul telaio, ma è in realtà dappertutto. Se si accetta di entrarvi, la domanda che ci si pone non è più su cosa l’opera rappresenti, ma piuttosto cosa le stia succedendo intorno.

Lo spazio della pittura è rimasto per lui un percorso che non guarda indietro. Le superfici dipinte sono lavorate con attenzione, i colori si sovrappongono e i suoi quadri diventano movimento. Resta il tema dell'infanzia, tratto distintivo dell'artista, ma con uno scarto rispetto al passato: l’indagine sul colore è diventata progetto artistico. L'aspetto autobiografico, seppur presente, è al servizio di una composizione matura e compiuta.

Il suo lavoro si misura con l'ambiente, intervenendo con installazioni che mantengono e rafforzano alcune sue peculiarità. Come i fondi, divenuti ormai una firma autografa, o le figure, che inglobate sempre più caoticamente nel colore, suggeriscono posizioni anatomiche impossibili. La relazione tra l’oggetto della rappresentazione, divenuto sempre più vorticoso e caotico, e il fondo, sempre nitido, quasi piatto e con una gamma dei colori basica e volutamente standardizzata, è la cifra di Castelli. I fondi piatti e senza ombre sembrano il modo in cui l’artista scavalca i vincoli delle misure. Le basi delle sue opere rimarcano l’assoluta indifferenza verso l’ansia di occupare un contesto. Piccoli fogli di carta di formato standard hanno la stessa forza poetica di tele grandi oltre due metri. Il contesto non è più nulla senza la vorticosa forza dell’opera, è solo la terra su cui tutto si svolge, in un sincopato groviglio che le ruba la scena con forza ipnotica, impedendo allo sguardo di spostarsi altrove. L’invito alla contemplazione delle sue prime opere diventa oggi urgenza di investire lo spettatore più che accompagnarlo. Tutto sembra svolgersi in un tempo ristretto, in un caos dal quale è difficile staccarsi. L’azione delle sue figure, sempre più sommerse dal colore, non poggia da nessuna parte, esse sono al centro di uno spazio infinito. Non è chiaro se stiano ascendendo o precipitando. Ma non sembrano preoccuparsene, perché quello che conta è mantenere la posizione, il groviglio di quel momento. La ricerca di un equilibrio formale lascia spazio alla libertà di sospendere l’azione senza punti di riferimento.

Per Castelli è una questione di punti di vista. Certe minute figure su fogli di carta bianca sembrano minuscole se le si osserva dall’alto, ma sono loro ad essere giganti se si considera lo spazio assegnato. E’ il vantaggio della rinuncia a riferimenti certi. Non c’è più un sopra e un sotto, si può essere nani o giganti allo stesso tempo, nel medesimo secondo. E la sua maturità artistica è evidente anche nella libertà che riesce a prendersi lasciando grandi zone senza pittura, dove il tutto e il niente trovano un equilibrio. La risposta non è data perché è dappertutto, la si può trovare nell’ansia dell’azione tumultuosa come nel nulla di fondi dai colori ospedalieri che, a dispetto delle tonalità pastello, non sono affatto rassicuranti.

La componente autobiografica si scioglie dentro un racconto più complesso. Bisogna cercarla, anche in minuscoli accenni. L’Eparina è un farmaco usato per bloccare processi di coagulazione del sangue in soggetti che presentano rischi di blocchi nello scorrimento venoso. E’ un farmaco che Castelli inserisce nelle pieghe delle sue composizioni. Come a dire che il procedere naturale di un corso liquido e vitale a volte necessita di violente interruzioni. Dall’esterno. Non tutto ciò che è naturale è vero né basta a sé stesso. La stessa molecola dell’eparina ricorda certe figure aggrovigliate delle sue opere.

Nella sua poetica Castelli racconta tutto, i suoi riferimenti letterali, la sua vita privata. Riesce a costruire un racconto senza restare intrappolato nella deriva diaristica. Esce da sé e se ne distacca con forza. Ma non rinuncia a dire che, per quanto razionalizzata, quella che lui mette in gioco è la sua vita e chiede con fermezza un’attenzione non superficiale. Si mette a nudo senza alcun timore ma vuole al contempo uno sguardo vigile e mai disinteressato. Riesce ad innescare un dialogo con lo spettatore senza mai mollare la presa, ma mostra anche tutte le sue debolezze. È con passo lieve che bisogna procedere perché è sulla sua vita che si sta camminando. Con questa leggerezza e responsabilità Castelli chiede di entrare nel suo lavoro.