UN CORPO METAFORICO
FRANCESCO BOCCHINI

APRILE 2015

 
 
 

Creature e curiosità ortopediche

ALBERTO ZANCHETTA

Francesco Bocchini taglia e salda il ferro per ottenere degli ordigni che sprigionano un moto stridulo e isterico. Sfruttando la tecnica dell’assemblage, l’artista ricorre alle armi dell’ironia e del paradosso per ampliare gli aspetti nozionistici e contaminanti della cultura postindustriale. Il ricco e variegato corollario di informazioni contenute nelle sue opere trova una necessaria valvola di sfogo in manovelle che i fruitori possono attivare a piacere. Soltanto la ruggine può far inceppare o ridurre all’immobilità questi meccanismi, cosa che non si può dire di molta arte cinetica o di tante installazioni multimediali che sembrano possedere una naturale predisposizione all’avaria. Anche se la forza motrice che mette in movimento queste opere è di tipo fisico, bisogna tener presente che l’attività cerebrale può arrivare a produrre 30 watts, energia necessaria a far comprendere il funzionamento degli stessi congegni; detto in altre parole, Bocchini è un “Tinguely senza spina”.

Nel 1919 Roberto Longhi aveva liquidato aspramente la pittura di Giorgio de Chirico, accusandolo di rintracciare «inaudite divinità nelle sacre vetrine degli ortopedici». Neppure le flaccide figure di Salvador Dalí erano immuni all’instabilità delle stampelle, ma nell’apparato locomotore di Bocchini le sottili grucce metalliche non si limitano a sorreggere i corpi, consentono altresì una sequenza di sussulti, guizzi e crampi. Qualche anno addietro l’artista aveva ammesso che le proprie opere sono «vere dichiarazioni “esistenziali” nelle quali non c’è riscatto o rivincita per nessuno. Il movimento è sempre a scatto, poco armonioso, con rumori cupi e con un’idea della forma rotta e disarticolata». La disarticolazione attiene all’idea di un corpo metaforico, sempre parcellizzato, spesso alluso, al contempo figurato e astratto. Interessato alla struttura degli organismi viventi, l’artista ha infatti realizzato degli ibridi tra ciò che è umano e animale, vegetale e geometrico. In mostra troviamo delle “creature ferrigne”, come l’omonima scultura Un corpo metaforico, con le estremità che si aprono e si chiudono in base alla rotazione della manovella, o Una testa di ferro, in cui tre cunei e altrettanti cilindri sembrano mantenere in equilibrio un voluminoso cranio. Osservando da vicino le due opere, torna alla memoria l’assioma di Cézanne, secondo il quale tutto in natura è formato da sfere, cilindri e coni, senza però dimenticare quanto andava affermando Samuel Butler, ossia che «il corpo umano non è che una tenaglia posta sopra un mantice e una casseruola, il tutto fissato su due trampoli».

L’assetto rudimentale e incongruo degli ammennicoli di Bocchini si ispira ai grandi archivisti del passato, intende cioè tracciare unitinerarium mentis et corporis che si appella a una dilettantesca cultura filosofica in cui la natura si mescola alla tecnica e la scienza all’arte. In questo vizioso ciclo vitale, l’artista crea un ambiguo inventario-catalogo del mondo, stabilendo relazioni che scardinano l’ordine sistematico della realtà. Ad esempio, nel reliquario Blanco Psico Macrobio troviamo fittizi organi umani in rapporto dialettico con alcune lamiere di piccolo formato sulle quali l’artista ha dipinto animali e vegetali che denotano stringenti analogie con la nostra specie (scimmie e pappagalli sono “formidabili imitatori” dell’uomo, mentre la radice della mandragora assume una forma antropomorfa durante la stagione primaverile). Dedicata allo spirito indagatore e all’attività empirica di Ambrogio Teodosio Macrobio, la teca in ferro e vetro di Bocchini proietta lo spettatore all’interno di uno spazio scenico in cui il repertorio visivo ci appare sconnesso, in quanto aperto a mille interpretazioni, divagazioni e fraintendimenti.

Se sconnesso è pure il rumore provocato dallo sferragliare di questi insoliti meccanismi, alla storia e alle scienze naturali appartiene la teratologia dei gemelli siamesi Colloredo; parassitario e discontinuo, l’organismo metaforico/metamorfico di Bocchini accetta di buon grado le malformazioni, gli eccessi o le lacune anatomiche. Proprio come i Colloredo, anche Iside e Osiride erano fratelli, di più: erano amanti.

Ed è sempre un rapporto di simmetrie e di reciprocità a sancire il legame tra la scultura di Iside e Osiride con Il corpo di un animale; nell’uno troviamo il coccodrillo, associato al Nilo (nelle cui acque venne gettato il corpo esanime di Osiride) e all’Egitto (ove furono disperse le membra del dio); nell’altro, invece, fa la sua comparsa un canide, mammifero che fin dall’antichità si è legato all’uomo, accettandone l’addomesticamento.

Dopo il regno animale, è la volta di quello vegetale. Gli erbari che l’artista ha realizzato nel corso del tempo si sublimano qui in unaVegetazione bianca, di un bianco innaturale, etereo, astratto oltre ogni ragionevole dubbio. Diafana perché ambivalente e perché inabile alla fotosintesi, la scultura si rivela sfuggente come un “fantasmata”, vale a dire il ricordo di un’esperienza pregressa. Lo stesso processo associativo e ricombinatorio si riscontra nei dolciumi, nei legumi, nei pesci e nei cristalli ritagliati dalle scatole in latta che compongono il profilo di Arcimboldo, un volto dal naso acuminato che pare ricordarci il motto di Feuerbach: «Noi siamo quello che mangiamo». Nella libera commistione dei materiali, Bocchini smentisce l’assunto secondo cui gli oggetti sono dei corpi inanimati. Da tale vitalità nascono strutture che sono proporzionali al loro pleonasmo e al disordine cognitivo che le ha generate.

Come d’abitudine, Francesco Bocchini si interroga sullo scibile umano mediante una lente deformante che è anche una pratica di [r]esistenza. Difficile dire se le sue “curiosità ortopediche” siano una causa oppure un effetto, o se magari lo siamo noi?