aLESSANDRa giovannoni

volevo metterci il cielo

Con un testo di michele tocca

francesca antonini arte contemporanea, roma

dal 20 marzo 2025


Volevo metterci il cielo.

Sui dipinti recenti di Alessandra Giovannoni. 

Michele Tocca

Non c’è dipinto in cui manchi il cielo, fosse anche soltanto uno spiraglio, un avere la testa tra le nuvole o fosse sotto forma di un tubetto di oltremare: il cielo non manca mai. Si potrebbe continuare così per tutto il testo, seguendo un elenco lunghissimo di metafore celesti. Che poi è quello che facciamo quando parliamo dei dipinti, parliamo di metafore. Allora quel “volevo metterci il cielo” esclamato dall’artista distrattamente mentre mi mostrava i suoi ultimi lavori, non è solo un’ammissione spontanea, ma è anche la nostra metafora iniziale che vale più di tanti “qui non ho dipinto il cielo”. E lo è ancora di più sull’altana di un condominio primonovecentesco, un osservatorio dove il sole è presente in quasi tutto l’arco alba-tramonto fin quando la luna non gli dà il cambio; e se quell’artista è Alessandra Giovannoni (Roma, 1954), paesista dagli esordi, che di cieli ne ha dipinti a centinaia.

Lo studio di Giovannoni a Roma è così, una torre fatta di finestre senza vetri. 

È una torre di venti e di intemperie, canicola e arsura; per nulla rassicurante pur dominando i tetti del Quartiere Africano, così composto, dolce, un po’ stucchevole. Volevo metterci il cielo è diventato il titolo della sua mostra lì, nel suo studio, quando mi pare di averla sentita lasciarsi scappare una frase simile (qualcosa come “avrei potuto, voluto, metterci il cielo”), mentre rovistava tra le tele ancora mezze stiracchiate su telai provvisori. 

Lassù, dal cielo non c’è scampo. Per un’artista che ne ha dipinti così tanti in una lunga carriera, dire “volevo metterci il cielo” a posteriori, senza averlo fatto, equivale a sentire il cielo come rimpianto. Ascoltarlo suona come una rinuncia troppo carica di significati per lasciarla sfuggire. Sono parole che rimbombano, e io le ho colte dopo un po’ che svolazzavano nello studio, sospettando che racchiudessero il senso di questa serie di opere del 2024: perdere il capo e ricominciare dalla coda, isolarsi e puntare lo sguardo di fronte e verso il basso, perdendosi nell’infinitesimale. Erbacce invece che pini mediterranei, fontanelle invece che palazzi, muri frontali e marciapiedi al posto di prospettive lineari. Sono motivi nuovi, ma non inaspettati per la pittrice. Per anni sono stati elementi secondari che comparivano in qualche angolo di dipinto e servivano da accento compositivo. Insomma, sono tutti termini di un lessico che Giovannoni ha finora usato per sceneggiare trame, architettare scenografie, tratteggiare comparse. Guardando gli ultimi dipinti, invece, si avverte un bisogno profondo, il richiamo a innescare uno svisceramento del carattere di ciascuno di quei piccoli props pittorici.

Andiamo per ordine e seguiamo le coordinate del tracciato in cui opera l’artista, i dintorni immediati dello studio, una linea immaginaria dove si confina non senza escursioni – a volte Cinecittà, più spesso il Lungotevere, in quest’ultimo gruppo di lavori, anche Villa Pamphilj. Tutto di solito si svolge tra Nomentana, Villa Borghese, Via di Castro Pretorio, passando per Piazza della Croce Rossa fino a via di Villa Patrizi. 

Il rito si ripete: cammina, cammina, fotografa e schizza i soggetti su cui lavorerà in studio. È nel corso delle sue esplorazioni in zone per lo più famigliari che scocca la scintilla, si palesa l’estraneo, la piccola epifania meravigliosa che ne arresta lo sguardo. Se finora il rituale si consumava aspirando a una certa lontananza di cui Giovannoni era spettatrice-regista distaccata – proiezioni ortogonali e prospettiche di distanze, altezze e verticalità di alberi e palazzi, figure anonime –, ora l’interesse è nella prossimità. Lo sguardo si abbassa e si avvicina ai soggetti: il primo è una pianta, un ciuffetto di margherite che esce dall’intercapedine di un muro sul Lungotevere. 

Sulla tela le tre margherite sono come incise, tremolanti su una superficie di pietra che sembra cemento, per come è grezza la resa cromatica del dipinto tutta dedicata ai fiori. Da qui, da un pezzo di una semplicità fanciullesca e microcosmica, prende avvio questa messa a fuoco sui dettagli che caratterizza i nuovi lavori. Un corso inedito per l’artista, che nel comporre ha sempre teso a una magniloquenza plastica, un’ampiezza grandangolare di matrice fotografica. Di questa concezione panoramica rimane poco; forse l’unico appiglio a modi pittorici più battuti sembra di primo acchito il grande dipinto Piante di capperi al Casale dei Cedrati Eppure anche qui, per quanto fondamentalmente architettonico, il taglio è più iconico, il close-up più ravvicinato. Osservando i due archettoni ombrosi del casale in Villa Pamphilj, anche il chiaroscuro estremo, sironiano, tipico della Giovannoni, assolve un ruolo effettivamente diverso. Con quella percezione greve, sovraccarica, dei pieni e dei vuoti che non riescono mai a essere vuoti, è ancora un chiaroscuro sordo, un’apnea claustrofobica. 

Ma lo è per far sentire, intensificandola, la profondità del recesso da cui nascono quei capperoni così dirompenti. Come per il dipinto delle margherite, dove il colore della pietra è lasciato scialbo per esaltare la piantina, anche in questo, tutto è funzionale al venire alla luce del soggetto. Non è forse per rimarcare l’emersione del verde dei capperi, che il bianco della pietra è impastato di un rosso crimson così esattamente complementare?  

A proposito del verde, credo che questo processo di emersione dell’infinitesimale sia in fondo merito del Tevere, della serie di lavori dedicati al Tevere che l’artista espone nel 2020. Sono quei monocromi verdi, quadri di fronde, a nascondere il cielo per primi, a spingere lo sguardo dell’artista in giù, verso le viscere della città. Giovannoni, d’altronde, ha sempre Roma come maestra. La città non è solo soggetto, è musa. Come una piccola dea sulla spalla che la esorta, guida e punzecchia, Roma dà dritte e vizia, crea sogni e intrappola: il loro è un rapporto totale che negli anni l’ha formata e condotta in territori inusuali, profondamente autonomi rispetto agli artisti della sua generazione.

Ripercorrendo per un attimo la formazione di Giovannoni, sono sicuro che il segreto della sua autonomia nello scenario artistico italiano sia proprio radicato nel rapporto con la città. Per formazione non intendo quella del suo canone estetico personale; né quella universitaria e accademica. Intendo proprio la genesi della sua poetica: la scelta di dipingere il paesaggio. Quella di Giovannoni giovane artista donna negli anni ‘80 è una scelta coraggiosa e spericolata, del tutto individuale, in un contesto in cui discorsi così specifici sul genere pittorico sono ben di là da venire. Correndo il rischio di risultare passé, questa scelta di campo le ha decisamente permesso di filtrare tutto ciò che le accade intorno con libertà. 

Supera indenne l’influenza di correnti come Neoespressionismo e Anacronismo così cruciali negli anni del debutto; non si associa al gergo dei suoi contemporanei della Scuola di San Lorenzo. Guarda tutto con ammirazione, ma da lontano. È l’amore per il paesaggio romano, soprattutto quello del suo vissuto quotidiano, a permetterle di trovarsi un’identità alternativa al milieu artistico coevo e resistere. La Roma che informa Giovannoni non è dunque né contesto contemporaneo, né stratificazione culturale, ma è un’entità viva e autosufficiente, una sorta di entelechia che le basta a forgiare quel lento lavoro sul paesaggio per cui oggi è conosciuta. 

Nel rapporto appartato e nello scambio silenzioso con la città, sono mancati interlocutori affini artisticamente; i tempi non erano maturi. Eppure percorrendo i suoi viali, osservando il mondo sotto i suoi pini, inseguendo le ombre lunghe di un qualche turista sconosciuto proiettate sull’asfalto, Giovannoni è arrivata comunque in un luogo suo. Ha annusato da subito, senza poterla capire del tutto, una sensibilità più vicina per temi e concezione del quadro alla decade successiva, la veduta urban e la relazione con la natura, l’anonimia e l’alienazione della figura nel paesaggio, il sublime distopico. Si è trovata così, intempestivamente, a lambire le coste della pittura che sarebbe emersa dagli anni ’90 in avanti, in America e Nord Europa prima che in Italia – le somiglianze e i confronti con certi modi di Peter Doig (UK, 1959), le inquadrature di Carla Klein (NL, 1964) e gli scorci del più giovane Koen van den Broek (BE, 1973), sarebbero approfondimenti appassionanti.

Direi che è grazie a Roma che l’artista non teme di essere incompresa nei momenti decisivi delle scelte artistiche e riesce a essere ancora oggi misteriosa, prensile: non smette di cercare, si permette di sbagliare, continua a sporcarsi le mani dopo tanti anni. 

Perché non rischiare ancora? Perché smettere di sporcarsi le mani? 

Per Giovannoni, oggi la pittura è questione di emergere da anfratti e pertugi, cercare il sole senza darlo per scontato. Non può esserci il cielo, perché la pittura sta tutta in un processo di svisceramento. Non ci sono più le chiome a ombrello dei pini marittimi o i cipressi, ma si sentono le radici. Non c’è il cielo, ce n’è magari un riflesso nell’acqua della vasca in ghisa di una fontanella. Il cielo portato in terra dal ramo che irrompe tra la ringhiera di una scala e sui laterizi. Oppure la pittura è un eliotropio che, come dice il nome, cresce e gira verso il sole. Una pianta letteraria – la pianta magica un tempo legata ai rimedi più svariati, dai morsi di serpente alla pozione per l’invisibilità – che ormai invade i marciapiedi di Roma, come in Piazza della Croce Rossa, dove la sua velenosità è resa dall’ombra artigliata e minacciosa che proietta. È un dipinto paradossalmente scuro, che sembrerebbe un notturno se non fosse per il bianco del travertino e, appunto, la gittata dell’ombra. Giovannoni ricorda esattamente dove era quando ha visto, fotografato, appuntato il momento dell’incontro con ciascuna di queste piante. Si ricorda l’ora e il giorno, la temperatura e il meteo durante il cammino. Per chi guarda i dipinti è invece impossibile risalire a quel tipo di esattezza. 

Nell’opera dell’artista, la tavolozza è sempre frutto di una rielaborazione, è filtrata. Penso all’oscurità di Piazza della Croce Rossa, ma anche al bianco tutt’altro che atmosferico in Fico Selvatico in via di Villa Albani. Il modo in cui l’artista rielabora il colore  è fondamentale per capire il suo procedere, rivelando che il suo racconto della realtà non è né fisico né surreale, ma sta in quel confine labile tra percezione e sogno che si chiama rêverie. La coscienza e l’inconscio si alternano, si accendono e spengono all’interno di ogni singolo lavoro, mettendoci in contatto con inaspettati affondi psichici. 

Chissà forse c’è qualcosa di infantile, giocoso, in questo stato. Forse c’è nello sguardo. Oppure è nel fare: come quando si disegna da bambini e si trascura tutto il resto per arrivare subito a ciò che si vuole disegnare, un alberello, una principessa, un cavallo, in ogni dipinto Giovannoni non vede l’ora di arrivare a dipingere le piante. Lo fa a tutti costi. 

Altrimenti, mi viene da pensare, c’è forse una adesione appassionata a queste esistenze vegetali marginali, a come riportano il selvatico in città, si riappropriano dei luoghi, e li riabitano, li fanno propri. C’è un’identificazione.

A Roma non le estirpano nemmeno più, queste piante; passano inosservate, sono, per ossimoro, parti integranti di troppo. Ingombrano, insozzano, ma non sono incivili e vandaliche: in fin dei conti è più facile identificarsi nei loro modi e motivi di esistere che in altre forme viventi bipedi in questo tempo barbarico.

Non è un caso, allora, che un giorno lo sguardo di Giovannoni si sia posato, tra i tanti cespi naturali che si possono incontrare a Roma, proprio sulle margherite dei muri, un’asteracea che si vede spesso tra i sassi del foro, i muraglioni di Trastevere, le fortificazioni aureliane. Io ne vedo tantissime. È una sempreverde, resiste all’inquinamento, sta bene al sole e all’ombra, l’inverno e l’estate e nelle stagioni di mezzo.

Michele Tocca (Subiaco, 1983) è pittore di base a Roma. Realizzati in interni ed esterni, i suoi dipinti ritraggono fenomeni, durate e circostanze del mondo fisico come sovrapposizione continua tra l’immediatezza sensoria e lo spontaneo ripresentarsi di archetipi visivi e problemi estetici quando dipinge dal vivo. In questo senso è autore di scritti su artisti che vanno da Thomas Jones ai giorni nostri. Mostre personali recenti includono: Hm, He, Ha (con Pesce Khete), Fondazione Coppola, Vicenza, 2024; Poca notte, z2o Sara Zanin, Roma, 2024; Repoussoir, GAM – Galleria Civica di Arte Moderna e Contemporanea, Torino.