LA TEMPESTA NEL BICCHIERE
MARIO AIRò, GREGORIO BOTTA, DANIELE DI GIROLAMO, BEATRICE PEDICONI, ALBERTO SAVINIO
OPENING MARTEDì 6 maGGIO 2025
FINO A VENERDì 12 SETTEMBRE 2025







LA TEMPESTA NEL BICCHIERE
SAVERIO VERINI
Il luogo più struggente di Roma è probabilmente la tomba del poeta John Keats, al Cimitero Acattolico. Sulla lapide, verso la fine, si possono leggere queste parole:
“Here lies One
Whose Name was writ in Water”
“Qui giace una persona il cui nome fu scritto nell’acqua”. Non c’è alcun riferimento, solo l’eloquente intitolazione – qualche riga sopra – a un non meglio precisato “young English poet”, che proprio in virtù di questa vaghezza così inusuale e ostentata, nel tempo è diventata un’inequivocabile certificazione dell’identità dello stesso Keats. Scrivere nell’acqua è forse una delle immagini che meglio esprime l’essenza del gesto artistico, almeno da una prospettiva romantica: c’è lo struggimento per il termine delle cose, una certa delicatezza poetica, l’apparente inutilità di qualcosa che è destinato a svanire irrimediabilmente. Mi è difficile pensare a parole più esatte di quelle dell’epitaffio di Keats per descrivere il sentimento de La tempesta nel bicchiere (parole che sono state immediatamente condivise con Francesca Antonini, quando ho ricevuto l’invito a curare una piccola mostra che partisse dal tema dell’acqua).
Fin da subito si è posto il problema di circoscrivere un argomento – è il caso di dirlo – fluido, in grado di prendere infinite forme e rivoli, espandersi potenzialmente a dismisura. D’altra parte, l’acqua è elemento primigenio dell’ordine universale, capace di accomunare miti fondativi e cosmogonie delle culture più disparate; è, inoltre, una presenza costante nella storia delle immagini, per via dei suoi innumerevoli rimandi simbolici. A quanti dipinti ha fatto da sfondo e di quanti altri ne è stata soggetto principale? E quanti artisti, oggi, si ispirano al suo lato meno limpido, ai naufragi in mare, all’inquinamento delle acque, al riscaldamento climatico?
In questa circostanza, si è preferito concentrare l’attenzione su un punto di vista più specifico. Non le onde graffianti di Hokusai, né scene di battaglie nautiche o tragici affondamenti à la Gericault, nemmeno le “mappature” del Mediterraneo realizzate dal gruppo Forensic Oceanography, che documentano le angoscianti traiettorie delle imbarcazioni di migranti; l’acqua è qua rappresentata non nel suo aspetto sublime di forza che si espande – incontenibile e impetuosa –, quanto nel suo carattere di liquido “dolce” e circoscrivibile. Le opere in mostra intendono suggerire un contenimento, piuttosto che un’esondazione: ad accomunarle, un sottile senso della misura, grazie a un impiego dell’acqua che non prevede traboccamenti.
Misurato è il suono dell’acqua ricreato da Daniele Di Girolamo (Pescara, 1995), che accoglie il visitatore all’ingresso. La poetica dell’artista è orientata a dare un corpo a fenomeni effimeri e impalpabili: in questo caso, il movimento costante di un’onda, che introduce alla mostra attraverso un suono. Suono che, come spesso capita nelle opere di Di Girolamo, si fa immagine: i cilindri rotanti a parete con all’interno della sabbia diventano inaspettati amplificatori, grazie ai quali l’artista conferisce al rumore della risacca una peculiare plasticità (ed è curioso constatare come a evocare l’acqua sia un elemento a lei “opposto” come la sabbia). A Measure of Distance I (2) è la pelle che riveste un fenomeno acustico del quale ogni persona ha fatto esperienza, innescando in questo modo una costellazione di memorie e associazioni, con tutte le loro lacune, alterazioni, sfocature.
Chi non ha mai sentito la pioggia, ride delle ninfee (Paul Eluard) è l’elegiaco titolo dell’opera di Beatrice Pediconi (Roma, 1972). Da alcuni anni, l’artista ha messo a punto una tecnica particolare, che tiene insieme pittura e fotografia: le linee che attraversano le sue tele monocrome sono, infatti, dei filamenti di emulsione sottratti a scarti di vecchie Polaroid, che vengono trasferiti sul supporto, aderendovi, durante un processo che avviene interamente in acqua. Le immagini che derivano da questo bagno – ma mi verrebbe quasi da dire “battesimo” – somigliano a dei fiori fantasmatici; fluttuanti ed eterei, aderiscono come una pelle alla tela, trovando così una miracolosa, delicata incarnazione. L’invenzione di Pediconi richiama da vicino la “scrittura nell’acqua” della lapide di Keats, con la quale condivide anche il valore di memoriale: gli steli e i petali che prendono corpo sulla tela derivano da lavori precedenti dell’artista, che – grazie a una strana forma di metempsicosi – trovano così una nuova vita.
Di fiore in fiore, Untitled di Mario Airò (Pavia, 1961) vede la presenza di una peonia e di un tulipano, ovviamente immersi nell’acqua contenuta in due lunghissimi, affusolati vasi di rame e vetro. Airò è senza dubbio tra gli autori che nel panorama artistico contemporaneo ha saputo meglio dar forma a opere alimentate da una grazia inaudita. I suoi lavori – è quello in mostra ne è un esempio paradigmatico – si reggono su un equilibrio millimetrico, contesi tra precarietà e compiutezza, dimensione onirica e concretezza, senza mai cadere in patetismi compiaciuti. Di fronte alle sue opere sono spesso attraversato da un fremito: pur nella piacevolezza estetica, la loro ambigua costituzione sembra suggerire un senso di panico, come se bastasse un soffio a comprometterne la stabilità, metterne a repentaglio l’incolumità. Osservando la scultura, si può notare come i vasi coi fiori siano in realtà collegati, quasi fossero le due teste di un unico corpo serpentesco che si avvita su se stesso, generando un abbraccio intimo, armonioso, romantico.
Per Gregorio Botta (Napoli, 1953) l’acqua è a tutti gli effetti un materiale a partire dal quale plasmare le proprie opere. L’acqua, in Botta, mi sembra chiami in causa una dimensione quasi liturgica. Così, almeno, sembra accadere con Muta, l’opera in mostra. In effetti, fin da quando li incontrai per la prima volta al MACRO nel 2012, ho sempre avuto la sensazione che i lavori di Botta emanassero un’aura sacrale: sono rifugi (questo era, non a caso, il titolo della mostra al MACRO), luoghi appartati (forse è per questo che sono spesso allestite in prossimità di muri e pareti, come a cercare una protezione); a volte più luminose e limpide, altre più opache, le sue opere mi fanno pensare alle celle di un eremita in miniatura, spazi di concentrazione e raccoglimento animati da una solennità frugale. Muta propone l’immagine di una sospensione, un’inerzia che – dietro alla levitazione incantata – sottende una sottile tensione che sfida i principi della fisica. L’altezza della ciotola in bronzo eccede quella media degli occhi dell’osservatore: il contenuto rimane in questo modo celato, alimentando il mistero di quel galleggiamento metafisico.
L’ultima opera in ordine di apparizione è la prima ad avere in qualche modo ispirato la mostra. Si tratta di un disegno degli anni Quaranta del secolo scorso realizzato da Alberto Savinio (Atene, 1891 - Roma, 1952), dal titolo piuttosto articolato, Turbine o storia vera - La nostra nave fu innalzata da un turbine. Capita di frequente che le figure dei dipinti e dei disegni di Savinio fluttuino sospesi su paesaggi marini; in questo caso è un’imbarcazione a essere sospinta in alto, sollevata dal movimento vorticoso delle onde. Come nell’opera di Botta, anche qua siamo di fronte a un’elevazione che ha qualcosa di magico: la nave sembra portata in trionfo dalle acque, che sono restituite attraverso un tratto sintetico, una “calligrafia” morbida e controllata. Più che a un naufragio, assistiamo a un evento miracoloso, un piccolo episodio di quella mitologia frammentaria e a tratti nostalgica che attraversa buona parte della produzione di Savinio.
È forse questa l’immagine che meglio può condensare la mostra e “spiegarne” il titolo. Un’esposizione fatta di movimenti, vibrazioni e increspature, che tuttavia non incrinano l’argine dell’opera. Se avessimo potuto esprimere un desiderio inesaudibile – sia per l’impossibilità di ottenere il prestito, sia per le dimensioni del lavoro – 32 mq di mare circa di Pino Pascali avrebbe potuto far parte di questo percorso, o almeno così ci piace pensare, per la sua capacità di tenere insieme energia e contenimento, espansione e misura. È all’insegna di questo equilibrio che abbiamo cercato di immaginare La tempesta nel bicchiere.