MODELS & SIMULATIONS
FEMKE SCHAAP

 

 

Ottobre 2013



DIMENTICARSI TUTTO

di Claudio Libero Pisano

Questo è il presupposto per entrare in relazione con un’opera di Femke Schaap. Non di video si tratta, né di installazioni. Ancor meno scultura o pittura. Almeno nel senso comune in cui tutto questo viene inteso. Bisogna liberarsi di qualsiasi apparato culturale conosciuto e allora, solo allora, si riesce a entrare, fisicamente, nel suo lavoro. Fatta tabula rasa poi si recupera tutto. I riferimenti storici, la conoscenza e la dichiarata passione per il mondo del cinema e le esperienze Dada. Nei lavori, di piccole o grandi dimensioni ci si deve entrare, se ne impara a conoscere l’aspetto costruttivo e quello fatto di meraviglia. Forme geometriche in polistirolo, a volte rivestito in gesso liquido, fanno la loro parte per l’aspetto scultoreo. Ma questo è solo l’inizio. Non ci sono forme conosciute, è un ammasso di volumi che, a terra o sospesi, prepara al teatro che poi comincia. Tutto prende realmente forma nel momento in cui questi volumi diventano elementi in movimento. Si muovono solo in apparenza grazie alle proiezioni mirate sulle superfici volute. La scultura prende forma nella proiezione che accoglie e inizia così un gioco continuo e ipnotico dal quale si fatica ad uscire.

Lo spazio della galleria Il Segno è completamente trasformato. La sala grande diviene un teatro nel quale decine di forme geometriche compongono un paesaggio straniante e privo di un apparente percorso logico, nella più solida tradizione Dada. Luna Park (2010) ricorda Relache di Francis Picabia e Erik Satie, un balletto che utilizzava per le scenografie solo il bianco e il nero. Le parole di Picabia sembrano raccontare oggi quest’opera di Femke Schaap: “"Relache è la via, la vita come io lamo... È il movimento senza scopo, né in avanti né indietro. Né a destra, né a sinistra, Relache non gira, ma non va neppure dritto: Relache va a zonzo per la strada”. C’è un aspetto ipnotico che lega molta della produzione dell’artista olandese alla ricerca dell’ungherese Moholy Nagy, al vorticoso girare di forme che bloccano lo spettatore nell’osservazione di un movimento senza inizio né fine. In Carnival(2011), un’opera di piccole dimensioni, adagiata su un esile tavolo, sono i colori di un parco giochi a creare l'azione in cui l’alternarsi sincopato delle luci riporta alla memoria la frenesia e la gioia di quel tempo solo dedicato al divertimento e alla gioia. Tutto lo spazio restituisce una sensazione di vertigine e, per paradosso, la totale assenza di suono rende le opere cariche di rumore. Lo spazio artistico suggerito dall’artista si attraversa come una complessa esperienza sensoriale nella quale forme esili e leggere trasportano lo spettatore in un mondo visivo e tattile che, senza forzature, restituisce tutto. Conoscenza e sapere.