LA SCELTA DEL TEMPO

MONICA CAROCCI

OPENING GIOVEDì 14 marzo 2024
FINO A SABATO 18 MAggio 2024

 
 

La scelta del tempo

“Per vivere, proprio come per nuotare, va meglio chi è privo di pesi, perché anche nella tempesta della vita umana le cose leggere servono a sostenere, quelle pesanti a far affondare” Apuleio

Paola ugolini

Ti spiegherò come esistano, in tutto ad essa attinenti, quelli che io chiamo le immagini o i simulacri dei corpi, che qua, che là van volando, quasi membrane staccatesi dal loro involucro esterno, per l’aria (…). Adunque dico che i corpi, dal loro involucro esterno, emetton delle sottili figure e dei simulacri che quasi debbono dirsene una corteccia o membrane. Tito Lucrezio Caro, De rerum natura.

Lucrezio, De rerum naturae; “Origine dei simulacri”

«Per Lucrezio l’immagine è una cosa. Si configura come un tessuto, si palesa come materia che vola per l’aria. In tal modo, come il filosofo e poeta epicureo suggerisce, viene alla luce qualcosa di importante: la sostanza fisica di un’immagine si manifesta sulla superfice»1.

Monica Carocci sin dagli inizi della sua carriera si è distinta per un uso personalissimo del mezzo fotografico, riuscendo a far aleggiare attorno ad ogni suo soggetto un’atmosfera rarefatta, sospesa e misteriosa. La superficie delle sue fotografie appare come la membrana su cui si manifesta l’immagine che però rimane come in bilico fra ‘materia che vola per l’aria’ e ‘sostanza fisica’.

Negli anni Ottanta nel mondo della fotografia c’è stata la ricerca di una sovrapposizione tra realtà e finzione, un fatto importantissimo per l’accettazione di una nuova visione culturale, che si afferma in maniera evidente nel decennio successivo, dove la distinzione tra realtà e virtualità tende ad annullarsi del tutto. Il confine fra questi due livelli diventa quindi sempre più labile e fluttuante e l’immagine viene svincolata dal peso di essere portatrice di verità universale.

Paesaggi, animali e figure femminili sono i soggetti che questa visionaria artista predilige e che, attraverso una elaborata tecnica di manipolazione manuale vengono proiettati oltre gli orizzonti del reale andandosi a costituire in immaginari e visioni fuori dal tempo, e non conformi a nulla che possa essere visto con lo sguardo della ragione. I suoi paesaggi, ambienti liminali in bilico fra l’urbano e il rurale, fra il tecnologico e il naturale, non sono immortalati in una perenne e immutabile staticità. Al contrario, sono ‘attraversati’ in maniera instabile perché sono la proiezione di uno sguardo che, superando le convenzioni di una certa spettacolarità comunicativa, li trasforma in metafore del divenire, del mutevole e dell’incerto.

Per Monica Carocci ‘il mezzo determina il fine’ infatti la fotografia non è per lei solo un semplice strumento di perfezione tecnica e formale, ma la via con cui arrivare all’immagine ultima, frutto di una serie di interventi successivi praticati sulla sua pelle, sulla sua corteccia: abrasioni, aggiunte, cancellature, variazioni cromatiche che poi fotografa una seconda volta e stampa sempre e solo in bianco e nero.

Questa meta-fotografia non crede dunque al reale oggettivo ma cerca di catturare con la sua ineffabilità lo spazio indefinito dell’inconscio e del surreale. Sono immagini smaterializzate e sfumate che, impedendo una lettura univoca della realtà, si fanno specchio della coscienza soggettiva.

Le ballerine, eteree figure femminili in equilibrio precario, gli animali, gli insetti, le strade, gli skyline metropolitani, i fiori sono tutti elementi che l’artista usa come simboli di una dimensione sospesa, sempre sull’orlo di vaporizzarsi in altro, come fossero epifanie. Sono esperienze, emozioni, sensazioni e ricordi, immagini più simili a visioni che non a fenomeni del mondo diurno. Lampi nel cui bagliore appaiono suggestioni ambigue. Il bianco e il nero, il buio e la luce, non sono solo variazioni cromatiche o fenomeniche opposte, ma condizioni osmotiche e intime che entrano direttamente in contatto con lo sguardo interiore dello spettatore piuttosto che con quello retinico.

Monica Carocci con questo nuovo lavoro, che presenta per la prima volta nella galleria di Francesca Antonini, rende visibili le paure che si nascondono nelle pieghe di questi nostri tempi incerti lacerati da guerre, crisi climatica e flussi migratori. La figura della ballerina, un’immagine iconica per rappresentare una femminilità che è solo apparentemente delicata, si è evoluta in una serie di affascinanti e inquietanti figure femminili ibridate con elementi presi dal mondo degli insetti, fanciulle corazzate, per fronteggiare le avversità del mondo contemporaneo. Ci si dimentica troppo spesso che per poter stare in equilibrio sulle punte o per piroettare con eleganza è necessaria un’enorme quantità di forza e di duro allenamento quotidiano. Le ballerine sono delle atlete che riescono a librarsi leggiadre facendo dimenticare a chi le ammira la potenza dei loro fasci muscolari e la fatica della performance. Questa la magia della danza, trasformare la forza in grazia. C’è magia anche in queste dee contemporanee che affiorano sulla superficie della stampa fotografica fra strappi e lacerazioni come guerriere venute da pianeti lontani. Come ha teorizzato Rosi Braidotti «tra l’organico e l’inorganico troviamo gli insetti, corpo-realtà in grado di traghettarci fuori dall’antropocentrismo e guidarci lungo le direttrici di logiche e prassi postumane»2. 

Queste nuove guerriere cyborg rappresentano con il loro corpo ibrido un processo di fusione di termini inconciliabili come umano/macchina e biologia/tecnologia; per affinare le pratiche di combattimento hanno inglobato nell’organicità del corpo umano la morfologia insettiforme e aracnoide della secchezza, dell’assenza di peli, corazze corporee inscalfibili simile al metallo, grande resilienza, capacità mimetica e leggerezza. «La guerriera cyborg si muove nomadicamente, non è interessata ad incarnare un mito o una narrazione che non parta dalla sua carne polimaterica pensante»3.

In questo racconto di femminilità e forza sarebbe interessante scoprire cosa accadrebbe in un mondo rovesciato in cui è il corpo femminile a essere temuto. Una possibilità che la natura ha già previsto ad esempio nella mantide e nella vedova nera, che hanno un dismorfismo di genere capovolto, essendo le femmine più grandi e aggressive del maschio. La loro modalità riproduttiva, inoltre, rappresenta la concretizzazione delle più oscure paure legate alla sessualità virile: durante l’accoppiamento la femmina decapita il maschio e poi ne mangia il corpo.

«Il post-antropocentrismo destituisce il concetto di gerarchia tra le specie e il modello singolare e generale di Uomo come misura di tutte le cose. Il vuoto ontologico così aperto viene riempito velocemente dall’arrivo di nuove specie»4. Le donne-insetto create da Monica Carocci ben si inseriscono nel panorama ideologico contemporaneo in cui al concetto di post-umanesimo la filosofa Rosi Braidotti ha aggiunto la parola femminismo per «implementare un processo trasformativo di esplorazione di sentieri alternativi di pensare e di divenire»5. L’essenza femminile di Carocci si incarna in corpi che sono oltre l’idea fantascientifica della guerriera cyborg teorizzata da Donna Haraway per la quale l’ibridazione riguardava l’umano e la macchina, la carne e l’acciaio, corpi singoli che diventano corpo collettivo per suggerire nuove configurazioni belliche. Il corpo cyborg diventava quindi un soggetto nomade che deliberatamente confonde le distinzioni categoriche di umano/macchina, natura/cultura, uomo/donna e proprio perché sconfina, non è unitario ma rappresenta una soggettività multi-stratificata e contraddittoria. Su simili premesse, le donne ibridate di Monica Carocci sono invece meta-umane o forse ultraumane, poiché inglobano nella propria forma, migliorandola in termini di resistenza e forza, elementi organici di altre specie che abitano il nostro pianeta. Dunque, corpi potenziati per resistere e combattere, rimanendo nell’alveo di una natura che è al tempo stesso già tecnologia.

Quella prima visione sfumata sul mondo dei dati sensibili diventa adesso una pre-visione. La fictionalità è già insita nel reale, ed è capacità di fabulare e utopizzare, nel senso di creare futuro. Dal sottosuolo e dagli interstizi, tutto il rimosso emerge ora, sempre più tangibile, contro le certezze della biologia e dell’eugenetica a fondamento della struttura del mondo antropocentrico.

1 G. Bruno, Superfici, a proposito di estetica, materialità e media, Johan&Levi editore, 2016 Cremona, p. 9.  2 R. Braidotti in A. Chiricosta, Un altro genere di forza, iacobellieditore di Trefusi srl, 2019, p.316.  3 Chricosta, op.cit., p.317.  4 R. Braidotti, Il Postumano (Vol.3.), Femminismo, Derive e Approdi, 2023.  5 Ibidem

CARTELLA STAMPA

RASSEGNA STAMPA

LA REPUBBLICA, IL GIORNALE DELL’ARTE